Dopo le notizie delle gravi accuse della Sec alla Goldman Sachs, la madre di tutte le banche d'investimento, molti si stanno interrogando sulle cause e sul ruolo del cosiddetto "Goldman Sachsism" nella peggiore crisi economica e finanziaria dal 1929.

Molti commenti sulle cause della crisi finanziaria si sono fermati all'analisi dei motivi tecnici che hanno condotto alla deflagrazione della bolla e ai suoi rimedi. John Cassidy con il suo "Rational, irrationality" sul New Yorker ha illustrato meglio di chiunque altro questo filone di indagine che vanta una ormai copiosa letteratura, prendendo spunto da un intervento fondamentale del governatore della Banca d'Inghilterra Mervyn King, che a sua volta riecheggiava suggerimenti del finanziere George Soros e dell'ex governatore della Fed Paul Volcker.

Questo tipo di considerazioni giungono sempre alla medesima conclusione, seppure con toni e accenti diversi: maggiori controlli, modifiche dei sistemi di incentivi ai manager slegandoli dal valore delle azioni e tornare al ripristino della Glass Steagall, la legge degli anni 30 che separava le banche commerciali da quelle di investimento, la cui abrogazione viene considerata la madre di tutte le sventure successive.

Ma il sasso lanciato a fine 2009 sempre nello stagno del politically correct sulla versione comunemente accettata sulle ragioni della crisi, dall'editorialista dell'Herald Tribune, Richard Bernstein, ha fatto fare un salto di qualità alla ricerca sulle cause profonde della, in termini shakespeariani "tempesta perfetta", primo passo per arrivare al cuore del problema, trovare i rimedi ed evitarne il ripetersi in futuro, seppure sia rimasto un contributo dal seguito minoritario.

Dribblando la trappola dei "banchieri avidi" come tanti Scrooge di dickensiana memoria con cui un'altra corrente di pensiero di tipo populista sta cercando di spiegare o per meglio dire banalizzane il fenomeno che ha cause ben più complesse, Bernstein, che è stato corrispondente all'estero in Cina ed Europa nonché responsabile della cultura al New York Times, suggerisce di utilizzare gli scritti della filosofa tedesca Hannah Arendt applicati alla crisi finanziaria.

Operazione funabolica ma non priva di suggestioni. Prima o poi, spiega Bernstein, la Commissione d'inchiesta sulla crisi finanziaria, creata dal Congresso per indagare sulle cause della crisi finanziaria in atto, senza dubbio esaminerà l'aspetto tecnico del crollo finanziario - bassi tassi d'interesse, liquidità eccessiva, credit default swap, derivati, mutui a basso costo a dismisura e di altri fattori che quasi hanno mandato a picco l'economia globale.

Tuttavia tra le tante cose che i membri della commissione non faranno, sarà leggere "Le origini del totalitarismo", libro del 1951 della studiosa tedesca Hannah Arendt, che a prima vista sembra essere del tutto estranea da una crisi che ha avuto luogo più di tre decenni dopo la morte dell'autrice.

Invece questo è stato l'argomento di un gruppo di politologi, filosofi e anche un paio di economisti che si sono riuniti in un fine settimana di ottobre 2009 al Bard College, 145 chilometri da New York, per chiedersi cosa gli scritti della Arendt potrebbero insegnare sull'attuale tempesta dei mercati finanziari.

Un bel po' è stata la sorprendente risposta. Vediamo perché. Il titolo della conferenza - "Può la discussione della Arendt sull'imperialismo aiutarci a capire l'attuale crisi finanziaria?" – dava già un traccia di lavoro intrigante con una punta di bizzarria intellettuale. Il dibattito si è articolato sull'ipotesi, un po' sorprendente, che la Arendt, la cui principale preoccupazione fu analizzare i mali gemelli del nazismo e del comunismo in Europa, sarebbe molto utile a tutti i politici, banchieri centrali e organismi di controllo, in un mondo dominato da quello che potrebbe essere chiamato «Goldman Sachsism».

Ciò che la conferenza ha messo in evidenza qualche mese or sono è che gli scritti della Arendt sull'imperialismo, che facevano parte della suo lavoro più ampio sulle "Origini del totalitarismo", in realtà riecheggiano misteriosamente i recenti eventi finanziari. Come?
Il punto fondamentale è che per la Arendt, l'epoca dell'imperialismo, che l'autrice fa partire dal 1870 e dura fino allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, ha segnato il momento in cui il principio della crescita economica illimitata (o della irrazionale esuberanza dei mercati di Greenspaniana memoria) e l'espansione nel mondo (o globalizzazione diremmo oggi) è venuto a dominare la politica. È stato il momento in cui alcuni soggetti privati, molto facoltosi, monopolizzano il potere politico e trasformano le politiche dello stato nella tutela dei loro interessi - e non è difficile vedere qualcosa di simile anche oggi.

"Dopo le disastrose truffe finanziarie degli anni 1860 e '70, seguite al famoso invito del ministro francese François Guizot «enrichez-vous», la necessità di proteggere i loro investimenti di capitale in aree lontane del globo, e gli enormi profitti derivanti dai relativi interessi, spingono i capitalisti per la prima volta a far garantire le loro imprese (troppo grandi per poter badare a se stesse) dal potere politico, ha spiegato Jerry Kohn, capo del Hannah Arendt Center presso la New School for Social Research di New York, durante la conferenza.

Solo suggestioni? Fumisterie intellettuali? Può darsi ma qualche elemento di riflessione è davvero interessante. La Arendt, filosofa ed ebrea tedesca scampata al nazismo, ha trascorso gran parte della sua carriera di insegnamento nelle università americane. Lei è probabilmente più conosciuta al grande pubblico per la sua frase "la banalità del male", che ha coniato, mentre seguiva il processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme - la sua idea è che il male di Eichmann non illustra una passione estrema, ma piuttosto una ottusa, burocratica obbedienza all'autorità. Tralasciando che anche questa frase è stata usata per spiegare la crisi economica da Shoshana Zuboff su Businessweek dove ha parlato di banalità dell'operare in un sistema che «ricompensa la transazione ma respinge le responsabilità per le conseguenze di queste transazioni» è sull'offuscamento del bene comune che ci vogliamo soffermare.

Nella carriera della Arendt, spesa nella analisi del crollo della civiltà europea a causa del nazismo e del comunismo, uno degli elementi chiave di questo collasso è stata la sostituzione dell'impegno delle virtù pubbliche con il perseguimento di interessi privati. Ma non è ciò che avviene sempre in ogni civiltà al tramonto? Non esattamente. «Per la prima volta -, ha scritto, parlando di imperialismo - investimenti di potere non aprono la strada agli investimenti di denaro, ma l'esportazione di potere segue docilmente il denaro esportato».

Un altro partecipante alla conferenza, Tracy Forte, docente di scienze politiche presso l'Università di California, San Diego, ha notato l'attenzione della Arendt sulla figura di Cecil Rhodes, il colonizzatore britannico dell'Africa del sud, che disse che «avrebbe annesso il pianeta se avesse potuto». Ciò che la conferenza di Bard ha fatto è tracciare la linea che va da Rhodes a Goldman Sachs, Morgan Stanley, AIG e altri che erano troppo grandi e fondamentali per poter fallire (too big to fail). Un tema che rieccheggia le dure parole di Paul Volcker poi entrate nelle lettera sui principi della riforma finanziaria di Obama così come recepita nel comunicato della Casa Bianca nel gennaio 2010.

Roger Berkowitz, capo del Centro di Hannah Arendt per l'etica e la politica, riferendosi all'epoca imperialista, è andato ancora più a fondo."Oggi – ha aggiunto – sta avvenendo praticamente la stessa cosa».Come i loro omologhi del 1870 che si avventuravano in territori lontani e ostili alla ricerca di ricchezze favolose, e poi hanno dovuto rivolgersi a loro governi per la tutela, le banche commerciali e quelle di investimento di oggi vogliono massimizzare i profitti in modo superrischioso ed essere protette contro il rischio allo stesso tempo.

E' il concetto che gli economisti chiamano di moral hazard, ma che per usare le parole di Mervyn King, ha raggiunto in Gran Bretagna "in investimenti diretti o prestiti garantiti alle banche la cifra di mille miliardi di sterline, pari ai due terzi della produzione annuale dell'intera paese». C'è stato un momento in cui la Bank of Scotland aveva un patrimonio superiore a quello britannico.

Cifre enormi ma al convegno sulla Arendt i partecipanti si sono stupiti della facilità con cui i governi del 1870 furono convinti a servire gli interessi privati degli imperialisti creando in anticipo una sorta di turbo-capitalismo. Oppure, per dirla con la Arendt, citata in questo caso da Kohn: «Le nazioni in questione non sapevano nemmeno che l'incoscienza (Moral hazard diremmo oggi) che ha prevalso nella vita privata di allora, e contro il quale l'ente pubblico (lo Stato hegeliano) ha sempre dovuto difendere se stesso e i suoi cittadini, fu elevata a quella di principio politico pubblicamente riconosciuto - cioè, il principio della gloria nazionale, attraverso l'espansione imperiale».

Naturalmente si deve ricordare che le analogie storiche vanno prese sempre con molta cautela ma il fatto che il concetto di "incoscienza" o di prendere rischi maggiori di quanto sia sostenibile nella propria attività privata, diventi un principio pubblicamente accettato nella sfera politica suggerisce che la Arendt aveva capito profeticamente un aspetto del nostro presente. Spetta a noi cercare di ricondurre la razionalità nel sistema accettando anche di riflettere su suggestioni che all'inzio possono sembrare un po' astruse e non pertinenti secondo l'ortodossia economica.

 

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